Nel nostro precedente articolo abbiamo precisato che il latino è una lingua storica e di cultura, che ci consente di seguire il cammino dell’uomo attraverso i secoli e di coglierne due aspetti fondamentali: la storicità e la razionalità.
Se è vero che alcuni motivi per i quali il latino è stato studiato nei secoli precedenti – quando la conoscenza della lingua di Roma aveva delle evidenti implicazioni pratiche ed era necessaria per poter accedere a determinati incarichi (pensiamo a avvocati, notai, giuristi in genere, medici, segretari, per non parlare di tutta la gerarchia della Chiesa cattolica) – oggi sono venuti in buona parte meno, non è men vero che lo scopo dell’insegnamento del latino non è mai stato di natura solo pratica o sociale. Potremmo anzi dire che affianco a tale fine consapevole ce ne sia sempre stato uno più valido, benché a volte inconsapevole, e cioè quello educativo e intellettuale. Non mi riferisco qui a una presunta maggiore logicità del latino rispetto a altre lingue, alla ‘ginnastica mentale’ a cui allenerebbe lo studio di tale lingua o altre cose del genere ancora in voga, che forse non sono del tutto false, ma sono certamente molto meno valide d’altre ragioni; mi riferisco, invece, al perfezionamento morale e intellettuale a cui conduce lo studio serio e criticamente consapevole del latino, non disgiunto dallo studio del patrimonio letterario con esso tramandatoci. Insomma, un po’ come avviene colle api, il cui “scopo apparente e consapevole che le attira all’interno del fiore è quello di gustarne il dolce succo, mentre lo scopo reale e inconsapevole è quello di frugare negli stami e promuovere la fecondazione del fiore” (la metafora non è mia, ma di Tadeusz Zieliński, “L’antico e noi”, Napoli, 2004).
In cosa dunque consiste il valore educativo, morale e intellettuale, del latino?
Cominciamo dalle parole, e da un esempio un po’ in voga oltre un secolo fa. In italiano diciamo ‘arrivederci’; in latino ‘vale’, propriamente ‘sta’ sano’, poi ‘addio’; in greco ‘chàire’, propriamente ‘sta’ allegro’, poi ‘addio’. Se leggiamo con superficialità, se traduciamo meccanicamente senza sviscerare le parole, non cogliamo non solo la visione del mondo e la percezione delle cose che ebbero i greci o i romani, ma nemmeno la nostra, che come di rimbalzo si schiude davanti ai nostri occhi quando ‘filologicamente’ – attraverso cioè l’amore per la parola, come l’etimologia del vocabolo c’insegna – riflettiamo sulla lingua. Non cogliamo, insomma, l’eco dello spirito romano, sobrio e sano, né di quello greco, che si compiace della vita, e probabilmente nemmeno il nostro perché, sebbene immersi in esso, spesso non riflettiamo sulla lingua, che non di rado usiamo con sciatteria, spezzando quell’intimo legame tra le parole e le cose. Sbaglieremmo infatti, e molto, se pensassimo che la lingua, ogni lingua, sia solo uno strumento di comunicazione: essa infatti è un modo d’essere e di sentire, è ciò che dà forma ai nostri pensieri e ai nostri sentimenti, perciò prendersi cura della lingua è prendersi cura di sé stessi, come singoli e come membri d’una comunità.
Riflettere sulle parole, riflettere sul modo in cui sono legate tra di loro per esprimere i concetti, e magari trasportare questi concetti in un’altra lingua (la traduzione sarà oggetto d’un altro articolo), ha un grandissimo valore educativo, morale e intellettuale, perché aiuta ognuno a avere maggiore consapevolezza di sé stesso e a interpretare criticamente la vita e il mondo. Contribuisce quindi a liberarci dai pregiudizi e a maturare un certo amore, per così dire, per il buon gusto, la bellezza e la verità, sottraendoci al contempo all’utilitarismo, foss’anche professionale, applicato all’intelletto. Anche gli umanisti italiani del Quattrocento ne erano ben consapevoli. Quando Leonardo Bruni dice che studia humanitatis [ovviamente in latino] nuncupantur quod hominem perficiant atque exornent, dice appunto che questi studi non solo abbelliscono l’uomo e lo rendono più amabile, ma portano a pieno compimento le potenzialità umane insite nella ragione (ratio) e nello strumento universale col quale essa s’esprime, la parola (oratio).
Qualcuno potrebbe forse avere l’impressione che il nostro discorso sia alquanto astratto, ma basterebbe riflettere sull’emozione che si prova quando ci viene rivelato il significato d’una parola attraverso l’etimologia, alla musicalità d’un verso ovidiano o anche d’una sequenza medievale, alla nitidezza scolpita del periodare di Cicerone o ai rapidi colpi a sbalzo di quello senecano, per renderci conto che stiamo parlando, e in maniera molto concreta, di vita e di uomini.
Il punto, semmai, ci sembra un altro: solamente il latino assolve questo compito educativo, morale e intellettuale?
È evidente che quanto detto fin qui sul latino come lingua vale per ogni lingua; e in questo senso il latino non gode d’una posizione di privilegio. È pur vero, però, che le lingue non sono tutte uguali e che, da un punto di vista strettamente storico e culturale, alcune lingue sono più importanti d’altre per le conseguenze che hanno prodotto. Molti dei suddetti benefici potremmo infatti averli anche qualora studiassimo, tanto per dire, il tedesco o il russo in maniera storica e comparativa, frequentando assiduamente i classici delle rispettive letterature. Ma ben poche lingue, e, per noi italiani e europei, sicuramente nessuna come il latino, ci permettono di viaggiare nello spazio e nel tempo e di ripercorrere a ritroso la nostra storia attraverso un fecondo dialogo maieutico, col quale possiamo essere contemporanei non solo di Cesare e Cicerone, ma anche di Tommaso d’Aquino, Petrarca, Erasmo da Rotterdàm, Newton e tanti altri (che o hanno scritto in latino o, abbeveratisi a quest’inesauribile fonte, hanno riversato questo liquido vitale nelle lingue moderne), sottraendoci alla prospettiva schiacciata del presente. E non sarà superfluo aggiungere che volgere lo sguardo indietro non significa affatto ricondurci al passato, magari per evadere da un presente prosaico e mediocre; tutt’altro: “ché, se la quercia sprofonda le radici nel terreno, non è ch’essa voglia crescere all’indietro in seno alla terra, ma perché dalla terra essa trae la forza per potersi levare al cielo” (anche in questo caso siamo debitori a Tadeusz Zieliński per la bell’immagine).
Autentica prospettiva temporale, con relativizzazione della nostra esperienza, come una tra tante, ma anche con universalizzazione della ‘vicenda umana’; maggiore autocoscienza individuale e collettiva, in quanto uomini e cittadini partecipi d’una comunità contraddistinta dalla sua storia; profonda consapevolezza linguistica, in termini sostanziali e artistici, attraverso l’intima unione di parole e cose: questo è ciò che promette lo studio serio del latino.
Roberto Carfagni